«Rovine e macerie»

Obliare, rimemorare, edificare

Convegno di Studi
Pompei 17-18 novembre 2005


Abstract


prof. Giuseppe Prestipino

Gli interminati spazi e il tempo che non ritorna.
Le rovine dell’antico in Leopardi e il sistema delle arti
.



La poesia leopardiana culmina nell'immagine dell' "impietosa lava" vesuviana, grande metafora di un corso dei tempi nel quale una originaria vita (o "vitalità") secondo natura, donata ai popoli antichi così come all'età giovanile di ciascun individuo umano, rovina irreparabilmente per opera della stessa natura, che ci toglie gli "ameni inganni" o le fantasie poetiche (gli antichi, come i poeti-sacerdoti della tradizione lucreziana-vichiana, fingunt simul creduntque) e ci lascia l' "arido vero" di una ragione sterile e insieme affannata dall'idea moderna, stolta e fallace, di un inarrestabile progresso. Unico conforto, la poesia dei moderni come poesia del disincanto e, insieme, come incanto di una dolce-amara rimembranza.

Leopardi è il poeta filosofo che rovescia l'idea vichiana, pur ispirandosi ad essa: che vede il passaggio dalle prime età alle età ultime come perdita, non più come guadagno, e che non crede in alcun rimedio provvidenziale (non crede nei ricorsi storici come forza rigeneratrice e come promessa di una rianimata giovinezza che ritorni). L'opera del vichiano Leopardi, nello Zibaldone forse più che nei Canti, è dunque, nello stesso tempo, una sorta di "Anti-Vico"? E il suo "pessimismo dell'intelligenza", direbbe Romain Rolland, non lascia spazio ad alcun "ottimismo della volontà", malgrado le occasionali esortazioni agli umani e a se stesso perché fremano o di antico amor patrio o di nuova solidale operosità?